Pan e i figli di un dio minore

di Renato De Michele, 2003

«Diverso è colui per il quale tutti gli altri sono diversi.»

[F. Basaglia]

 

            Il dio Pan – in auge nella mitologia greca e i cui riti si protrassero in maniera eclatante dal V sec. a.C. fino al I secolo d.C. - è stato raffigurato sempre come un satiro con barba, corna, busto umano e zampe di capra. Un essere spaventosamente brutto.

            La mitologia ci dice che fu abbandonato dalla madre inorridita per aver partorito un essere così immondo. Mai padri furono più incerti. Di volta in volta: Zeus, Etere, Crono, Urano, Crati. Fu raccolto da Ermes (Mercurio) che lo portò sull’Olimpo, ben accolto dagli dèi tutti (Omero). Fu il protettore delle greggi e dei pastori. Per aver desiderato possedere la ninfa Sirinx, trasformatasi in canna per sfuggirgli, inventò il flauto (siringa) e ne divenne un suonatore eccelso in grado di competere con Apollo (nel mito del re Mida). Incuteva terrore ai viandanti, tentava di stuprare donne, bambini e ninfe.

            Edith Lecourt, psicoterapeuta francese, in un suo studio (Il dio Pan, grande eccitato-eccitatore: dalla pulsione alla psiche, Psychologie médicale, 23/6, p. 709-714, Univ. La Sorbonne, Parigi 1991), gli attribuisce un'identità ambigua che rappresenterebbe la metafora della diversità tout-court, e anche omosessuale quindi, oltre che dovuta all'esternazione di pulsioni represse.

            Philippe Borgeaud, studioso francese autore del volume Recherches sur le dieu Pan (Bibliotheca Helvetica Romana, XVII, Institut Suisse de Rome, Ginevra 1979), dal suo canto ci indica i riti in onore di Pan come espressioni della ricerca di un equilibrio tra colpa e istinto, tra panico e possessione, tra Es e Super-io, origine di forti frustrazioni che si dirigono potentemente verso esplosioni catartiche anche pubbliche.

            Il filosofo psicoterapeuta statunitense James Hillman nel suo Saggio su Pan (Adelphi ed., Milano 1977), ben analizza il mito di Pan come inconscio da affrontare in ogni suo aspetto, di umanità o animalità che sia, e non da rimuoverne la sola parte “animale”, come invece, nel corso della storia dell’occidente, troppo facilmente ci si è andati orientando. «La 'Grecia' – afferma – permane come un paesaggio interiore piuttosto che come un paesaggio geografico, come una metafora del regno immaginale che ospita gli archetipi sotto forma di Dei». E Pan è l'archetipo dell'inconscio.

 

 

Il tema dell'abbandono e il rifiuto della diversità.

 

Il dio mezzo uomo e mezzo capra fu abbandonato in una grotta.

Bisogna quindi soffermarsi sulla pratica dell'abbandono nei tempi antichi.

Nella mitologia e nella favolistica di ogni area geografica è presente il tema dell’abbandono. Ricordiamo da noi Romolo e Remo, ad esempio; o le situazioni di abbandono ricorrenti nelle favole (Biancaneve e i sette Nani, ad es.) e nei fumetti per bambini (Tarzan); o nei miti degli antichi greci (solo per citarne i più famosi: Edipo; Egisto; Paride, nutrito da un’orsa; Asclepio, allattato da una capra; i gemelli Anfione e Zeto figli di Zeus, e lo stesso Zeus allattato dalla capra Amaltea); o nei casi descritti con tanta meraviglia dell’“uomo-lupo” ritrovato in Amazzonia o della “donna scimmia” in Africa.

            Si può dire che il timore dell'abbandono (rifiuto da parte della madre) di per sé possiede degli aspetti archetipici radicati nel profondo dell’essere umano. Molte patologie mentali possiedono, infatti, nella separazione, nel rifiuto e nell’abbandono un’origine indiscussa.

            Ma, senza voler entrare nelle pieghe interiori dei significati patologici legati a questo tema (e già, tra l'altro, discussi dai precedenti Autori), e volendo estrarre il dato di realtà dal mito in questione, vogliamo solo porre in evidenza come la pratica dell’abbandono, ricorrente nei popoli antichi in generale, era dettata, il più delle volte, dal rifiuto sociale della diversità e dell’handicap, nel senso più ampio del termine. Questa spiegazione non è presente (perché?) nelle odierne interpretazioni che ad alti livelli culturali si danno di questo mito.

            Nella genesi di un mito interviene un processo di crescita subliminale, cronologica e lineare - del tipo: realtà, separazione, idealizzazione, eroicità, mito – che allontana il racconto dalla realtà dei fatti storici (processo di mitizzazione). E’ allora vero che, quindi, ogni mito possiede, a ritroso, un dato di realtà che di volta in volta, a fatica, può essere ricercato fra le pieghe della narrazione. Così il rito, che ne contiene l’elemento magico della “ripetizione” in chiave didascalica e in piccolo dell’evento, è ancorato ad un “qui ed ora” che da un lato ne congela il tempo, ma dall’altro, lo libera scandendolo e “ricordandolo”, e nelle cui varianti sedimenta e “immortala” anche le tracce degli eventi storici reali.

            Secondo quest’antica pratica, quella dell’abbandono, la persona problematica (con ad es. problemi psichici, handicap psicofisici, Down, malformazioni genetiche, nanismo, epilessia, streghismo, disturbo sociale, vagabondaggio, etilismo, omosessualità) o semplicemente “strana” (oligofrenica, comportamentale, barbone), o ancora figlia di tradimenti - che sia appena nata, o adolescente, o anche adulta -, se non soppressa, viene abbandonata (‘esposta’) al proprio destino nei boschi, o comunque in luoghi “al di fuori” delle comunità: viene affidata alla “natura”. Pan viene a rappresentare, quindi, tutto ciò che non è “contenuto”, “contenibile”, nelle mura della compagine sociale. Pan è, quindi, Natura “là fuori”, e chi ha la Natura incontenibile dentro di sé (il capro, ossia la diversità) deve andare via, verso regno di Pan. Ed esso diventa così il regno del panico, perché la diversità diviene paura: quasi fosse una colpa cadutaci addosso come un animale aggressivo, e di cui liberarci.

            Questa espulsione (non erano ancora stati inventati lager, reclusori e manicomi!) è stata probabilmente all’origine di tutte le leggende a margine del mito di Pan:

- il mettere paura al viandante (gli attacchi di panico, appunto);

- i rumori e le urla durante la notte nei boschi (dolore, fame, avvicinamento furtivo verso le abitazioni);

- il timore di stupri (le astinenze forzate che conducevano ai rapporti misti uomo-animale, le violenze contro donne e bambini);

- la vicinanza al comportamento animale (voracità, comportamento disinibito, atteggiamento di sfida, mancanza di contenimento).

 

            L’espulsione del diverso è anche espulsione e difesa dalle proprie diversità non riconosciute, dalla propria istintualità, dalla propria animalità (dal proprio Es, direbbero Freud e Jung): allora come, purtroppo, ancor oggi.

            Questo ci fa rivisitare il dio Pan come immagine di una sorta di parafrastico “pentimento”, di catarsi sociale, di autoesorcismo, di maquillage mitico-rituale (del tipo: “facciamolo dio e poi adoriamolo, così ci liberiamo del nostro senso di colpa”) all’interno di una mitologia ben poco divina e fin troppo umana – ma sarebbe meglio dire disumana, date le stragi di innocenti – nelle forme e nei contenuti: insomma, una “mitica” metafora del rifiuto sociale del diverso.

Ma il contesto generato dai riti di Pan, ad un certo punto, ne permette la congiunzione con il suo opposto: il piacere. E allora ecco che il rito, quello greco, assume (deve assumere) il significato catartico e terapeutico di liberazione dal panico, alla ricerca di quell’equilibrio interiore devastato dalla colpa, attraverso la ricerca del desiderio e del piacere, anche il più spudorato. Pan sembra diventare il proprio contrario: un guaritore. Ma in questo processo continua, tuttavia, ad essere senza scrupoli.

Così Pan, alla fine, ci convince almeno di questo: il panico e il piacere sono acqua di una stessa fonte; così come la diversità e la normalità, il desiderio lascivo e il rifiuto panico, la coalizione e l’espulsione. L’equilibrio può nascere, o perlomeno si può cercare, solo a partire dalla piena consapevolezza di tutte quelle parti che solo apparentemente sono “doppie” dentro e fuori di noi.